Riscoprire l’utopia

di Fabio Alfieri

Occorre che ci interroghiamo su come creiamo il consenso nell’Organizzazione, in CGIL, e come lo realizziamo tra i lavoratori e nel Paese. 

Occorre libertà di pensiero.

So quanto sia pesante dirlo ma la realtà va affrontata per quella che è e troppo spesso mi sono imbattuto in questa criticità, durante le fasi di questo Congresso.

Dobbiamo superare la logica del capo, dello slogan o con me o contro di me”

Il ruolo del Segretario Generale, a qualsiasi livello, deve ritrovare la naturalità del suo alveo statutario.

Sapere ascoltare. Spendersi per raggiungere una sintesi fondata sul merito. 

Invece, troppo spesso i punti di mediazione sono patti di potere, che poggiano sulla concessioni di ruoli organizzativi o sul riconoscimento di risorse.

È, questa, una riflessione che deve riguardare tutti.

Occorrerebbe, su queste basi, un nuovo patto fondativo che ci faccia ritrovare le ragioni ed i modi del nostro stare assieme.

Ci serve un’Organizzazione coesa, unita nel merito e capace di fare una sintesi reale, tra le diverse posizioni che scaturiscono da ogni dibattito e da ogni confronto.

In CGIL tutti predicano l’unità.

Ma l’unità di un’organizzazione complessa, come lo è un sindacato, parte e si fonda dalla capacità di tenere uniti ed insieme i tanti punti di vista differenti al proprio interno.

Invece, soprattutto negli ultimi anni, si è cercato di semplificare  e -come avvenuto in politica- per unità si è inteso che tutti devono convergere su un unico pensiero, su una stessa linea ideale; e quindi, in ultimo, su uno stesso gruppo dirigente e su un unico capo.

In Fisac è accaduto qualcosa di analogo; nei mesi precedenti al Congresso si è sbandierata un’unità politica che poi è stata smentita dalle votazioni di chiusura del Congresso.

Un Segretario Generale eletto col 54% dei voti e una Segreteria eletta col 51% hanno evidenziato un disagio politico evidente, che andava ben oltre le posizioni pubblicamente espresse dalla mozione di opposizione e dalla candidatura alternativa.       

Solo superando questi limiti interni sarà possibile lavorare serenamente per convergere su una contrattazione che -finalmente- torni ad essere diffusamente acquisitiva.

Occorre recuperare potere contrattuale, agli occhi dei lavoratori e del Paese.

Non a caso assistiamo sempre più frequentemente ad accordi non rispettati dalle controparti. Ormai, non è più la qualità degli accordi a fare la differenza ma la capacità di farli applicare. 

E senza potere contrattuale questa capacità non può essere esercitata.

Tra gli accordi non rispettati ne cito uno -che riguarda tutti noi, cittadini e lavoratori- ed è l’accordo sulle pressioni commerciali per la vendita dei prodotti finanziari.

I lavoratori sono allo stremo, quotidianamente vessati per raggiungere gli obiettivi di vendita; incitati ad eludere norme interne e normative di settore, minacciati e ridicolizzati pubblicamente se non raggiungono il budget assegnato.

I risultati di un questionario redatto dall’Università La Sapienza, erogato ai bancari di Pisa, ci parla di utilizzo sproporzionato di psicofarmaci per reggere livelli di stress divenuti insostenibili. 

Giuseppe Di Vittorio diceva che andavano create le condizioni affinché i braccianti non si dovessero più togliere il cappello davanti al padrone. 

Ma se oggi sei costretto ad ignorare i tuoi diritti, ad aggirare norme e leggi, a vendere quello che è vietato vendere, a doverti impasticcare per riuscire a sopravvivere non è -forse- la versione moderna di quella metafora di Di Vittorio?

Eppure, agli scioperi partecipatissimi avvenuti in alcune filiali bancarie su questo tema non è conseguita nessuna iniziativa a livello nazionale, se non l’istituzione dell’ennesima commissione paritetica di analisi del problema. Come sappiamo, una commissione non si nega a nessuno…

Cito -da ateo- Papa Francesco che nello spiegare il brano evangelico della stella cometa, che guidava i Re Magi, ci dice che quegli uomini avevano avuto il coraggio di alzare la testa, di non galleggiare nel presente ma di guardare al nuovo ed al cambiamento. 

Alziamo la testa, compagne e compagni!

Non galleggiamo, non adattiamoci allo stato delle cose! 

Non permettiamo che la Cgil si divida, come se fosse la sua normalità. 

Richiamiamo alle proprie responsabilità chi -in questi mesi- è stato incapace di trovare una sintesi sul merito, piuttosto che su di un nome o su un organigramma.

Sul merito, sulle risposte che i lavoratori attendono, sulla nostra capacità d’interpretare una società già molto cambiata ed in ulteriore e perenne mutamento.

Su come unifichiamo il lavoro povero, prodotto dalla digitalizzazione con le alte professionalità.

Non permettiamo che si facciano gli stessi errori che hanno portato alla scomparsa della sinistra politica.

Non dimentichiamo le nostre radici, osiamo di più; riscopriamo l’utopia!

Facciamoci ancora guidare da quelle nostre parole d’ordine che sono state sinonimo -per intere generazioni- di giustizia, emancipazione e sviluppo:

liberté

egalité

fraternité.