La partita Intesa Sanpaolo – UBI ed il rinnovo del Contratto Nazionale di Lavoro

Una riflessione con un’angolazione più ampia

In uno scenario di mutamenti, anche a sorpresa del sistema del credito in Italia, può essere utile intervenire con una riflessione originale sulla proposta di offerta pubblica di scambio da parte di Intesa nei confronti di UBI, avvenuta all’indomani della firma dell’ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro del credito.

Proposta che, come risulta dalle valutazioni espresse a caldo da quasi tutti i soggetti interessati, comprese le organizzazioni sindacali è stata giudicata come positiva pur non conoscendone i particolari ed in uno slancio che considera l’eventuale nascita di un’entità creditizia di primaria importanza europea come elemento sufficiente per definire positiva l’operazione.

Pur anticipando la presa di distanza netta da quella posizione, vale la pena ripartire dallo stato del settore.

Gli spot mandati in onda negli anni precedenti la crisi rappresentavano la banca come un’istituzione solida, garante della sicurezza economica e dello sviluppo del Paese ed i banchieri come soggetti distanti, razionali, veri burocrati ma consapevoli della loro missione e rispettati per la loro integrità morale.

Si potrebbe arrivare a dire che i diversi scandali – da Sindona a Calvi, da Cirio a Parmalat – non siano riusciti ad intaccare questa rappresentazione.

La crisi economica non ancora superata ed il permanere di tassi sui depositi intorno allo zero (a valore negativo nell’ultima fase) hanno cambiato l’azione delle banche e, di conseguenza, modificato l’immaginario collettivo circa la figura dei banchieri e delle banche stesse.

Oggi la banca, divenuta società per azioni, manifesta senza troppi veli il proprio unico scopo: quello di raggiungere livelli di utili ritenuti positivi dagli azionisti, anche a costo di venire meno al dettato costituzionale sulla tutela del risparmio. Se gli utili non arrivano dalle forbice dei tassi, questi si possono costruire lavorando sulle commissioni derivanti dalla vendita di prodotti finanziari e sui risparmi sul costo del lavoro.

Ed è proprio con la vendita dei prodotti finanziari che si è intaccata l’immagine delle banche e dei banchieri, trasformatisi in avventurieri devoti al raggiungimento dei budget a qualsiasi costo. Una scelta – nel gioco a rialzo del rischio – che ha prodotto nella parte “esterna e visibile” al sistema nuovi scandali, fallimenti e migliaia di clienti che hanno perso tutti i loro risparmi mentre, in quella “interna” il moltiplicarsi di pressioni esercitate sui lavoratori per vendere prodotti anche inadeguati pur di raggiungere i target assegnati.

Una situazione che ha causato livelli elevati di malessere tra i dipendenti bancari come per altro accertato dal noto questionario proposto ai bancari della provincia di Pisa e di cui il recente rinnovo del contratto nazionale di lavoro non si è occupato.

Nel citare la contrazione del costo del lavoro del sistema bancario in Italia, non si può che riprendere la riduzione continua degli addetti del settore registrata in questi anni, alla quale va aggiunta la riduzione del salario diretto ed indiretto e, in questa dinamica, non fa eccezione l’attuale rinnovo del contratto nazionale di lavoro: un approfondimento minimo circa l’aumento tabellare dell’ultimo rinnovo pari a 190€ a regime porta chiaramente in evidenza come, a seconda delle varianti, l’incremento reale sia tra i 50 ed i 100€. Ben poca cosa rispetto ai miliardi di utili realizzati dal sistema in questi anni.

L’ulteriore fatto inedito – e preoccupante – registrato nel corso della trattativa è stato l’ignorare il Piano Industriale di Unicredit che prevede la fuoriuscita di 6000 esuberi e la chiusura di 450 sportelli in Italia. Interventi ritenuti necessari per consentire il raggiungimento di maggiori utili.

Se fino a dicembre 2019 non risultavano chiare le motivazioni dell’accelerazione impressa alla chiusura della trattativa, oggi si può asserire che sul tavolo negoziale gravava sicuramente l’ombra del gruppo Intesa Sanpaolo, il cui progetto non poteva essere ostacolato o ulteriormente ritardato. In questa narrazione risulta coerente anche il perché la dichiarazione di due segretari generali dei sindacati di categoria sulla necessità di un patto con ABI sui livelli occupazionali della categoria sia avvenuta solo a contratto stipulato!

Ma qual è lo stato del settore? Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla riduzione degli addetti a circa 260.000 unità ed alla chiusura di 8600 sportelli. Ma le riduzioni non accennano a fermarsi: Unicredit, Mps, Bper hanno annunciato tagli totali per circa ulteriori 10.000 addetti e si attendono quelli di Popolare Bari e di Carige.

Esistono almeno altri due fattori che fanno pensare ad un’ulteriore contrazione di organici e sportelli:

(1) l’impossibilità ad affrontare i costi della digitalizzazione da parte di banche di piccole dimensioni che le indurrà a fondersi con altri istituti e (2) l’effetto della stessa digitalizzazione sull’occupazione con scarsi e/o deboli strumenti di tutela sindacale.

Può bastare la semplice rivendicazione di un nuovo lavoratore assunto ogni due uscite? Oppure è ormai il tempo di pretendere stabilità occupazionale nel settore attraverso la rioccupabilità? E quindi mettendo in campo misure di formazione vera e mirata alla trasformazione e rivedendo l’organismo bilaterale di settore, la riduzione degli orari di lavoro, il controllo degli orari di fatto e la revisione dell’ammortizzatore del settore?

In sintesi discutere di quei temi a cui le parti sociali non hanno dato spazio al tavolo negoziale per il rinnovo del contratto collettivo.

In questo quadro, si può sostenere che l’operazione del gruppo Intesa su UBI possa portare vantaggi per i clienti, per i lavoratori e dunque per il Paese?

I dubbi si rafforzano ulteriormente proprio perché questa operazione non va ad incidere sui fattori critici (e negativi) del sistema, ma si limita a garantire maggiori utili per gli azionisti: il colosso Deutsche Bank ha dimostrato come, da sole, le dimensioni non siano garanzia di successo.

Le stesse “economie di scala” – sempre citate in questi casi – non sono facili da realizzare in particolare in questa fase storica del sistema creditizio caratterizzata da un quadro di grandi, inaspettati ma soprattutto imprevedibili cambiamenti ambientali e sociali che incidono fortemente sull’economia.

Per effetto delle sovrapposizioni tra le due banche l’occupazione è destinata inevitabilmente a ridursi, così come le necessità di bilancio e gli effetti del potenziamento della digitalizzazione non contrattata ne appesantiranno il conto.

Non è difficile immaginare come la ricetta dell’esternalizzazioni delle lavorazioni, su cui si è fatto un ulteriore passo indietro nel rinnovo del ccnl, porterà fuori dal sistema altri lavoratori.

Se il credito alle imprese – ed in particolare alle piccole imprese non adeguatamente capitalizzate – oggi è visto come una zavorra a seguito del fenomeno dei crediti deteriorati, perché dovrebbe incrementarsi? Perché il solo aspetto dimensionale dovrebbe garantire quel ruolo, che era delle banche e che, grazie all’attenzione al territorio, era sempre stato di “volano dello sviluppo”? Qualche Istituzione chiederà al nuovo colosso di rinunciare ad una parte di utili pur di salvaguardare l’economia del Paese?

Pare, speriamo davvero di sbagliare, che l’operazione su UBI non presenti vantaggi per nessuno – lavoratori, clienti e Paese – a meno che non s’intenda modificare contemporaneamente l’attuale modello di banca.

Ma questo ci riporta alla mancanza di una seria politica industriale da parte dei governi che fino ad oggi si sono succeduti nel nostro Paese.

Ma allora, quale è il vero scopo di questa operazione? La domanda andrebbe certamente rivolta al top management di Intesa Sanpaolo ed ai portatori d’interessi politici ed economici che gravitano intorno a quel gruppo.